La mente labile

Ci son parole che, di tanto in tanto, tornano a risuonare al centro delle nostre conversazioni: oppressione, dittatura, estremismo e autoritarismo. Spesso tocchiamo questi temi con un certo distacco, parlandone da intenditori e filosofeggiando sull’assurdità di un’azione distruttiva che sentiamo molto lontana da valori e principi con i quali siamo cresciuti. L’attuale situazione in Afghanistan, sta scuotendo gli animi di tutti, suscitando domande e perplessità su un regime che esplicitamente si mostra per quello che è. Ci si chiede come sia possibile che al giorno d’oggi esistano ancora situazioni governative del genere, dove non c’è libertà identitaria e la dignità umana è calpestata alla luce del sole, sotto i piedi di chi comanda. E oltre a meravigliarci del clima di terrore scatenato e della disperazione con la quale la gente prova a fuggire, possiamo chiederci come si arriva a questo punto.
Autoritari si nasce o si diventa?
The Standford Prison Experiment© (2015). Scritto da Tim Talbott e Philip Zimbardo. Diretto da Kyle Patrick Alvarez. Prodotto da Sandbar Pictures; Abandon Pictures; Coup d’Etat Films.
È possibile credere che persone cresciute in ambienti democratici siano protette dal “contagio” di un atteggiamento violento e impositivo?
Ecco un esperimento che può rispondere, in parte, a questa e altre domande. Si tratta di un lavoro del professor Philip Zimbardo del 1971, svolto presso il seminterrato dell’istituto di psicologia dell’Università di Standford. Ciò che ispirò la ricerca fu il concetto di de-individuazione dello studioso Gustave Le Bon, secondo cui l’individuo che fa parte di un gruppo coeso, tende a perdere la responsabilità, l’autonomia decisionale e l’identità personale fino al punto da mettere in atto comportamenti antisociali. Sarà vero?
Zimbardo tentò di verificare tale ipotesi ideando uno degli esperimenti più famosi e controversi di sempre. Egli decise di simulare una vera e propria prigione, reclutando volontari attraverso la distribuzione di volantini. Dei 75 ragazzi che risposero all’annuncio, ne vennero selezionati 24, maschi, di ceto medio, senza precedenti per droghe o alcol e con una personalità equilibrata e poco incline alla violenza. Ai selezionati, venne affidato casualmente il ruolo di guardia o detenuto. I prigionieri indossavano ampie tute con numeri identificativi stampati avanti e dietro, una catena alla caviglia e un berretto di nylon; le guardie portavano divise color kaki, occhiali da sole riflettenti, manette, manganello e fischietto. A loro era lasciata piena libertà di intervento.
Nel carcere simulato, l’unico luogo accessibile ai prigionieri era un corridoio chiuso alle estremità, nel quale potevano camminare, mangiare o fare esercizi. Quando dovevano recarsi nei bagni, venivano bendati per evitare che scoprissero vie di fuga. Trattandosi di un luogo universitario, per riprodurre le celle, le porte delle stanze vennero sostitute da barre di acciaio con la rispettiva indicazione del numero di cella. Di fronte a esse c’era uno stanzino chiamato buco, stretto e buio, dove i detenuti venivano messi in isolamento. Il tutto veniva costantemente registrato e filmato.
Al fine di ricreare la tipica atmosfera di un carcere, le guardie si comportavano in modo che i detenuti capissero sin da subito di essere in una posizione di sottomissione; giunti alla prigione, infatti, venivano spogliati, perquisiti e igienizzati. Una volta vestiti, gli veniva rasato il capo e messo il berretto. Alle 2 del mattino venivano elencati i numeri delle loro tute, così che la loro identità smettessi di avere un nome. Tra le punizioni usate più spesso, c’erano le innumerevoli flessioni.
Le prime 24 ore trascorsero tranquillamente tanto che Zimbardo pensò che fosse necessario rendere tutto più realistico. Con grande sorpresa, però, la mattina del secondo giorno, i detenuti iniziarono una protesta, spogliandosi e inveendo dalle celle contro le guardie, al punto che le stesse chiesero immediati rinforzi. I prigionieri stavano prendendo un potere che andava frenato forzatamente. I ricercatori pensarono, così, di introdurre una sorta di cella privilegiata, dove far accedere coloro che si erano comportati meglio nel corso della rivolta; qui veniva servito del buon cibo e ci si poteva lavare accuratamente. Lo scopo era quello di spezzare l’alleanza tra prigionieri, mettendoli gli uni contro gli altri, favorendo sentimenti di frustrazione, rabbia, sfiducia e solitudine. Nel frattempo, le guardie si incattivirono e impedirono ai rivoltosi anche di recarsi in bagno, facendoli urinare e defecare in secchi che non avrebbero potuto svuotare. Il puzzo di escrementi e piscio concretizzava un degrado diventato sempre più verosimile.
L’esperimento proseguì con l’evidente accentuarsi dell’atteggiamento umiliante e vessatorio delle guardie. Nel corso del quinto giorno, i prigionieri cominciarono a manifestare chiari segnali di disgregazione individuale e collettiva; erano saltati i confini tra finzione e realtà e scompensi psicotici ed emotivi si palesarono con maggiore frequenza. Lo stesso Zimbardo si rese conto di essersi così tanto immedesimato nel ruolo di responsabile della prigione, tanto da aver dimenticato di essere prima di tutto un ricercatore. La situazione era degenerata oltre qualunque previsione e i partecipanti andavano tutelati, motivo per cui la ricerca venne interrotta prima di quanto stabilito.
Conclusioni?
La prigione di Stanford permise di capire cosa succede se viene dato il controllo a persone con un ruolo istituzionale. Si verifica un processo di de-individuazione che implica che l’individuo agisca come se le azioni fossero il frutto del comportamento dell’intero gruppo di appartenenza; non c’è più autonomia, responsabilità e senso di colpa, ma il proprio modo di fare è influenzato dal contesto e diventa parte di qualcosa di accettato all’interno del gruppo e quindi sempre lecito. Si annullano emozioni di vergogna e paura, si perde la consapevolezza di sé fino a dimenticare chi si è veramente.
Per quanto ciò in cui abbiamo sempre creduto abbia solide radici dentro di noi, la possibilità che un contesto emerga al posto nostro forse non è poi così difficile. La mente e l’emotività possono giocare brutti scherzi delle volte, soprattutto quando meno siamo presenti a noi stessi. Essere consapevoli non vuol dire solo conoscere la famiglia da cui veniamo o il modo in cui abitualmente ci comportiamo, ma significa anche vedere i punti di debolezza che possono renderci vulnerabili e facilmente influenzabili.
Cominciamo oggi, cominciamo adesso, subito a farci un’unica e semplice domanda: Chi sono io?
“Gli individui corrono continuamente dei rischi, contraggono malattie veneree, subiscono le dipendenze altrui, in base alla presunzione che ciò minaccerà noi stessi. Questa sorta di presunzione, che si basa sulla super valutazione di sé, è uno dei principali fattori di rischio del potere situazionale.”
“Effetto Lucifero” – Philip Zimbardo