Quel filo fuori posto

Mi colpisce il modo in cui ogni particolare della mia stanza di psicoterapia, possa creare magia. Quella magia che ci distingue l’uno l’altro, esprimendosi attraverso gesti personali, sguardi e distrazioni. Siamo attratti dagli oggetti di un luogo ma non sempre ce ne rendiamo conto. Alcuni li usiamo per allontanarci da noi stessi e vagare con la mente, altri per regredire, altri ancora per condurre un pensiero o un’emozione. Mi piace notarlo, e l’idea che anche la più banale delle cose possa avere un’anima e un’energia, mi affascina moltissimo. In fondo, ha un valore per noi ciò che scegliamo debba averne uno ed è per questo che decido che nella mia stanza vivono anime inanimate. Scelgo, per di più, che ciascuna di loro possa influire sulle persone che si rivolgono a me. Per dirla tutta, sono le imperfezioni che fanno la differenza.
The Alienist© (2018). Scritto da Careb Carr e Stuart Carolan. Diretto da David Caffrey. Distribuito da Netflix.
Quando una persona entra nella stanza per la prima volta, con imbarazzo, curiosità e timore, la prima cosa che le mostro è l’appendiabiti. Si tratta di uno di quelli fissati alla parete che, in questo caso, è posizionato dietro la porta d’ingresso. Lì ci sono il mio cappotto, la borsa e accanto una piccola libreria con peluche, mandala e Lego. C’è chi ci poggia la giacca o il borsello, chi tiene tutto addosso, chi ancora mette le proprie cose su una poltrona accanto a quella su cui siede. Già da qui comincia il mio straordinario viaggio nell’incontro con l’altro. In che modo? Fantasticando. Immagino che chi mette le proprio cose accanto alle mie, sia più propenso ad affidarsi rispetto a chi le tiene sotto controllo accanto a sé; mi piace credere che chi resta con la borsa addosso è pronto a scappar via in ogni istante oppure fatichi a “sbottonarsi” dinanzi ad un estraneo. Non si tratta di fare interpretazioni, ma ipotesi che ho sempre il piacere di confutare.
Il passo successivo, è igienizzare le mani. L’igienizzante si trova sopra una cassettiera. Anche in questo caso si notano piccole differenze. Qualcuno ligio alle regole, si igienizza in autonomia, qualcun altro si accomoda direttamente aspettando di esser richiamato all’ordine; qualcun altro ancora vuole usare solo il proprio personale igienizzante. Adattamento o ribellione? Fiducia o sfiducia?
Nella stanza ci sono cinque poltrone. Una di pelle nera sulla quale siedo io, due di fronte a me color amaranto e due in uno spazio a parte, bianche e di forma diversa. Dal lato della cassettiera si trova, invece, la classica scrivania con le rispettive sedie. In terapia io faccio sedere la persona su una delle poltrone posizionate di fronte a me. Nel mezzo, c’è un tavolino di vetro sul quale si trovano un porta fazzoletti, una piccola ciotola con caramelle e una pianta rigorosamente finta. È qui che comincia la danza. Ci sono persone che mentre si raccontano mangiano caramelle esibendo la propria parte più bambina e ci sono altre che invece dubitano della bontà delle stesse, cadendo nel giudizio. Poi ci sono i timidi con un Genitore Normativo molto presente, che chiedono il permesso per poterle mangiare.
Quando invece si parla di qualcosa di doloroso, sono diverse le reazioni rispetto agli oggetti della stanza. Chi si abbandona ad un pianto disperato, ad esempio, delle volte lascia che le lacrime scivolino sul viso bagnando la mascherina, altre volte corre ai ripari con i fazzoletti, vergognandosi di essersi lasciato andare alla propria fragilità e ricercando una necessaria compostezza. Quando invece è la rabbia a farsi strada, alcuni si muovono continuamente sulla poltrona, alternando posture diverse in uno stato di agitazione e nervosismo; altri tentano di governarla restando inermi e diplomatici; altri ancora si strofinano le mani sulle gambe, si toccano i capelli e la faccia compulsivamente.
In questa varietà di comportamenti, c’è una cosa che più o meno fanno quasi tutti. Esattamente nel momento prima che sopraggiunga un’emozione fastidiosa, spiacevole e censurata, proprio quando la narrazione diventa un modo per guardarsi dentro, quando gli occhi guardano disattenti in giro e le parole scorrono, accade qualcosa. Sul lato esterno del poggia-mano destro della poltrona su cui siede la persona, c’è un filo di cotone uscito dalla cucitura in grado di creare una magia inaspettata: notarlo, toccarlo e capire se può esser tirato via o rimesso a posto, favorisce una sorta di catarsi. La persona lo osserva, ci gioca e lo tocca, mantenendo l’attenzione a se stessa e a cosa si sta esplorando. Ciò che succede è molto simile a quando siamo al telefono e camminiamo per Kilometri o scarabocchiamo un pezzo di carta ascoltando la conversazione. Quel filo, così imperfetto, non può che esser lì ad aspettare di farsi notare senza invadenza, disponibile ad accogliere le mani di tutti per accompagnare silenziosamente il viaggio dentro di sé.
“Io spero che esista anche un Dio delle piccole cose
Che sappia i silenzi mai diventati parole
Che sappia i gradini di pietra, le estati scoscese
Quel nome che hai proprio lì sulla lingua e non viene”
Il Dio delle piccole cose – Fabi, Silvestri, Gazzè